La ricerca della felicità
Il più grande desiderio dell’essere umano è essere felice.
Poche persone sarebbero in disaccordo con questa affermazione.
A ben guardare, la stessa vita potrebbe definirsi un percorso alla ricerca della felicità.
Esiste però un aspetto meno evidente di questo universale desiderio che, a mio parere, è invece molto importante mettere in luce: lo stato di felicità desiderato da ognuno di noi non ha la caratteristica della “transitorietà”; nessuno desidera una felicità “a termine”, che si esaurisca in un tempo più o meno lungo, ma in ogni caso “determinato”.
Se proviamo a riflettere su questo aspetto del nostro desiderio di felicità, ci renderemo conto che ciò che veramente desideriamo è una felicità duratura, una condizione di benessere che non abbia fine, che una volta raggiunta possa durare per sempre, possa non essere mai persa.
Proviamo ad immaginare che qualcuno ci regali uno stato di completa felicità, dicendoci, contemporaneamente, che non potrà durare più di un mese; probabilmente riusciremmo a vivere nello stato di benessere per qualche giorno (e non è neppure detto), ma molto presto nella nostra mente si insinuerebbe il pensiero dell’imminente fine di quella bella e desiderata condizione, pensiero che immediatamente inquinerebbe il nostro stato di beatitudine.
Questo è quello che spesso accade nei momenti di serenità vissuti nella nostra vita: in molti casi, la paura che finiscano, il timore che possano andarsene repentinamente come sono arrivati, ci impedisce di assaporarli completamente, oscurandoli con sentimenti di ansia e di paura.
Ciò che sto cercando di mettere in luce è che il più grande e condiviso desiderio degli esseri umani non può essere definito soltanto dalla parola felicità, ma necessita dell’aggiunta di un aggettivo che ne descriva la qualità della durata, della mancanza di un termine: la sua adeguata definizione potrebbe essere “felicità senza fine”.
Quest’ultima affermazione (sulla quale sono convinta sia possibile un largo, per non dire totale, accordo), conduce all’inevitabile e fondamentale presa di coscienza che tale desiderio non può avere alcuna speranza di essere soddisfatto nel campo della nostra esistenza, la cui caratteristica fondamentale è quella del “limite”: con la vita nasce la morte, l’una non esiste senza l’altra, tutto ciò che appartiene a questa dimensione possiede un confine, una definizione, non può e non potrà mai esistere senza il suo opposto, che ne rappresenta la linea di demarcazione, di limitatezza (bianco/nero, luce/buio, bene/male, gioia/tristezza, alto/basso etc.)
Come potrà mai un “oggetto finito” della nostra vita (una casa, un gioiello, una relazione, un figlio, un lavoro, etc), rappresentare la soddisfazione del nostro desiderio di felicità infinita?
Non appare evidente che tale aspirazione è destinata, invariabilmente, a non trovare completo appagamento entro i confini dell’esistenza?
Ad essere vissuta con la costante simultanea presenza della paura di perdere l’oggetto, l’esperienza, la condizione che sappiamo rappresentare un soddisfacimento solo temporaneo del nostro desiderio?
Approfondendo l’indagine sull’universale desiderio di felicità che accomuna gli esseri umani, si giunge, quindi, alla fondamentale comprensione che non esistono oggetti, situazioni o relazioni, appartenenti al flusso vitale in cui siamo immersi, dotati della fondamentale caratteristica in grado di soddisfare tale aspirazione: l’essere senza limiti.
Dobbiamo perciò rassegnarci all’idea di non poter raggiungere la felicità che cerchiamo?
E se invece stessimo guardando nella direzione sbagliata? Se dovessimo semplicemente indirizzare la nostra ricerca in un altro senso?
E’ soltanto cambiando direzione, smettendo di guardare verso l’esterno e dirigendo la nostra attenzione verso l’interno, che arriveremo finalmente a riconoscere di essere la Felicità che stiamo cercando.
Proprio così
Non esiste nulla di più certo, presente ed immutabile di Ciò che siamo, della nostra Essenza, della nostra Realtà, che noi trascuriamo e dimentichiamo di riconoscere.
Se vorrete rileggere l’articolo “Siamo la nostra mente?”, troverete lo stesso invito che sto per rivolgervi ora e che, molto probabilmente, vi rivolgerò spesso anche in futuro in queste pagine:
provate ad entrare in contatto, proprio in questo momento, mentre state leggendo, con quel senso di presenza, quel senso di esistenza, quella consapevolezza di esserci, di essere vivi, che rappresenta la nostra condizione più essenziale, quella perennemente presente, nonostante, inspiegabilmente, ci si dimentichi di osservarla; non coincide con la mente, né con le emozioni, né con le sensazioni, piuttosto, è Ciò che ci rende consapevoli di tutto ciò che pensiamo, proviamo, sentiamo; E’ quella Consapevolezza; rappresenta la nostra più grande certezza, qualcosa su cui non nutriamo il minimo dubbio; entrandoci in contatto ci rendiamo conto che è uno stato presente, vivo, che non ci ha mai abbandonato, né mai ci abbandonerà, perché è il nostro ESSERE, è Ciò che siamo; sapremo che non abbiamo mai vissuto un attimo della nostra vita senza che fosse presente, attuale, reale, che non è mai cambiato e non cambierà mai, che testimonia lo scorrere degli eventi, è consapevole del continuo cambiamento delle sensazioni, dei pensieri, delle emozioni.
Ci siete? Magari è stato il contatto di un attimo, probabilmente le parole non riescono a descriverlo, la mente non può “afferrarlo”, ma ora sapete di cosa sto parlando vero?
Nessuno ce lo insegna, non siamo abituati ad entrare in contatto con Ciò che siamo, con Ciò che rappresenta la nostra Realtà e di cui possiamo essere certi sopra ogni altra cosa se soltanto gli rivolgiamo la nostra attenzione.
Eppure non esiste nulla di più importante di questa realizzazione, del riconoscimento della nostra Essenza, della scoperta di essere quell’infinito che così profondamente desideriamo e che mai troveremo cercandolo dove non può esistere.
Moksha
Cristina
27 maggio 2014 @ 11:11
“La parola bereshìt si scompone in bet osher, la casa della felicità, perché Dio ha creato ogni cosa per il benessere e la felicità delle Sue creature. Ogni uomo ha il proprio codice della felicità: ciò che rende felice l’uno è indifferente all’altro, e ciò che soddisfa oggi potrebbe essere la causa di un malessere futuro. L’uomo s’infrange nell’immagine della felicità, allontanandosi dall’essenza della felicità che è vivere con integrità e verità. L’uomo crea la sua felicità con il principio e la qualità dei suoi pensieri, parole e azioni…” (Yarona Pinhas) Al di là di qualsiasi credo religioso, penso che queste possano essere parole su cui ogni essere umano dovrebbe interrogarsi perché al di là degli eventi, anche i più dolorosi, sembra che l’uomo sia chiamato a dare un senso alla propria avventura di vita. E allora può aver senso leggere gli eventi non solo come un premio o una condanna, una fortuna o una sventura, ma, andando coraggiosamente al di là di tutto quello che apparentemente è, pensare alla condizione umana come un compito, una missione, quella di “riunificare ciò che è diviso”.
Grazie Moksha per gli stimolanti contenuti di questo blog, lo considero nutrimento per l’anima. Un abbraccio e a presto.
Moksha
27 maggio 2014 @ 15:44
Cara Cristina,
benvenuta e grazie di cuore per il tuo contributo.
Ho letto il tuo commento con attenzione, e la certezza che, con grande piacere, ne traggo è di trovarmi di fronte ad una “ricercatrice” del senso della vita, del significato dell’esistenza umana.
In questa mia replica inizio con il concentrarmi sulla frase del tuo commento che, dal mio punto di vista, ne racchiude l’essenza e cioè: andando coraggiosamente al di là di tutto quello che apparentemente è, pensare alla condizione umana come un compito, una missione, quella di “riunificare ciò che è diviso”.
Credo sia possibile rintracciare in questa frase un punto di contatto fra le visioni che stiamo cercando di esprimere, ma che, per ciò che riesco ad intendere da questo tuo commento e che proverò ad argomentare, mi sembra si mantengano sostanzialmente diverse.
La diversità sostanziale che rinvengo è descritta dalla frase “L’uomo crea la sua felicità con il principio e la qualità dei suoi pensieri, parole e azioni…”
La mia comprensione del messaggio “non duale” mi ha condotta a riconoscere la sostanziale illusorietà della “identità personale”; a sciogliere l’identificazione con l’entità corpo/mente che pensa, parla, sente; a realizzare che la mia Realtà (che coincide con la Realtà del tutto) non si limita all’entità personale, ma corrisponde alla Sostanza eterna ed infinita in cui e da cui quell’entità (con i suoi pensieri, le sue parole, i suoi sentimenti) accade; in questo senso quindi, se con “uomo che crea la sua felicità” intendi l’entità psico-fisica con cui solitamente ci identifichiamo, non posso trovarmi d’accordo con questa affermazione: la mia attuale comprensione mi porta ad affermare che quell’entità non ha la capacità di “creare alcunché” perché è un’illusione, non possiede una realtà autonoma, è una figura “di sogno”, come lo sono tutte le forme che, insieme ad essa, appaiono nel sogno che chiamiamo vita (ti invito a leggere l’articolo “Siamo fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni”, in cui tutto questo è argomentato un poco più approfonditamente)
Soltanto “andando al di là di ciò che apparentemente è” (quindi anche e soprattutto dell’identificazione con il “sé personale” che pensiamo abbia una capacità di scelta e creazione) sarà possibile distinguere il falso come falso, scoprendo che tutto ciò che “è diviso”, (quindi tutto ciò che appartiene alla dimensione dell’esistenza che ha un inizio e una fine, compresi la mente, i suoi pensieri, le parole, le emozioni, le sensazioni , anch’essi finalmente riconoscibili come oggetti limitati fra gli oggetti limitati) nasce da Ciò che non ha divisioni, da Ciò che è “Non-Due”.
Su tanti punti del tuo commento avverto una corrispondenza: l’uomo che deve interrogarsi, l’impegno ad “andare al di là di ciò che apparentemente è”, il giungere a “riunificare ciò che è diviso”.
Forse ciò che rappresenta una differenza sostanziale fra le nostre visioni è che in quel “ciò che apparentemente è”, la mia comprensione attuale include l’uomo, l’entità personale con cui ci identifichiamo e di cui non riusciamo a riconoscere la Vera Natura, che continuiamo ad immaginare come in possesso della capacità di creare.
Spero che quanto ho scritto riesca ad esprimere in modo sufficientemente chiaro le riflessioni che sono nate nella mia mente dopo la lettura del tuo commento.
Naturalmente uno scambio verbale sarebbe assai più adeguato a sostenere la profondità e l’intensità dei temi trattati; per il momento dobbiamo accontentarci dello scritto, che, in ogni caso, mi auguro e confido possa continuare, facilitando la reciproca comprensione.
Un caro saluto e ancora grazie di cuore.
P.S. hai visto l’orario di pubblicazione del tuo commento? A proposito del due che si riconosce uno 😉
Luce
8 luglio 2015 @ 21:31
Sat-Cit-Ananda! In sanscrito Sat è l’Essenza, immutabile ed eternamente presente; Cit significa pura Consapevolezza. Ananda è il risultato, cioe’ uno stato di Beatitudine! Sat-Cit-Ananda si trova in ogni creatura vivente, ma l’uomo non riesce a comprendere questa sua vera identità e cerca fuori la felicità. È come se cercasse fuori se stesso; come potrebbe riuscirvi? Deve invece guardare dentro di sé.
Nello stato di veglia ci sono quattro aspetti: il tempo (kžla), l’azione (karma), la ragione (kžrana) e il dovere (kartavya).
Supponi di aver deciso di andare in macchina a Roma per partecipare a un programma. Parti alle 5 del mattino e arrivi a Roma alle 8: le 3 ore che ci impieghi costituiscono il tempo, il viaggio in macchina è l’azione, il programma è la ragione e il parteciparvi è il dovere, ciò che deve essere fatto. Nello stato di veglia sono presenti questi quattro aspetti. Ora, supponiamo che alle 10 di notte fai un sogno: sei andato a Roma e hai preso parte a un programma. Quando sei partito? Con quale mezzo? Quando sei arrivati? Qual è stata la motivazione? Non puoi saperlo. Ciò significa che i suddetti quattro aspetti non esistono nello stato di sogno. Nello stato di sonno profondo non c’è tempo, non c’è ragione, non c’è dovere, né azione: si sperimenta unicamente la Beatitudine.
P.s. La spiaggia nella foto e’ la Lecciona?
Moksha
10 luglio 2015 @ 20:28
Grazie per il tuo commento Luce,
mi sembra di capire che concordi con quanto scritto nell’articolo sulla ricerca della felicità.
Un po’ meno chiaro mi appare il ragionamento sul “viaggio a Roma”, ma sono totalmente d’accordo con te sull’affermazione che il tempo è lo spazio esistono soltanto “per la mente e nella mente”. T’invito a leggere ciò che ho scritto in proposito nell’articolo “L’eterno adesso e l’infinito qui”.
Il mio intento in questo blog, è quello di invitare e possibilmente guidare i lettori nell’esplorazione della propria esperienza, con la convinzione che la scoperta della “Verità” possa avvenire soltanto attraverso l’indagine personale.
Grazie per i tuoi spunti di riflessione.
Un abbraccio
P.S. sì, la spiaggia nelle foto è la Lecciona